Amicizia, sacramento della nostra reciproca santificazione
Sono Suor Angela, non sono una studiosa: sono solamente una monaca carmelitana e Dio voglia che lo sia di fatto e non solamente di nome, perché mi classifico e mi presento come tale.
Vengo qui in semplicità, ricca – e fragile – solamente della mia esperienza ormai trentennale al Carmelo. Un’ esperienza che non mi ha lasciata come mi ha trovata, naturalmente; è passata attraverso molti momenti di grazie, di luci, molti momenti di crisi, anche profonde, anche severe, per le quali ringrazio profondamente Dio, perché forse è proprio da quei momenti che il Signore mi ha concesso – il cammino naturalmente non è finito – di passare di fede in fede, come dice S. Paolo. Riflettendo infatti su questo testo paolino, una volta una mia sorella, una consorella della mia comunità, ci fece notare come, nel corso della vita, ogni persona sperimenti “fedi” diverse, ossia diversi modi o livelli di fede, che creano, rispetto a quello precedente, come un novum mai prima sperimentato: la fede di ieri non è quella di oggi, se c’è stato un cammino. Il mio piccolo cammino anch’io l’ho fatto e da quelle crisi di cui parlavo forse ne sono uscita ancora più innamorata di questa chiamata, di quest’avventura, di questa storia di amore, che direi di “amore crocifisso”, visto che il Padre ha rivelato il Suo Amore per noi proprio lì, in quel Venerdì Santo, quel primo Venerdì Santo della storia in cui, sul legno di una croce, ci ha donato tutto, donandoci Suo Figlio.
Mi è stato chiesto di offrire una testimonianza, di “raccontare” Teresa e il Carmelo per l’esperienza che ne ho. Cosa posso dire, dunque, del Carmelo, che testimonianza posso donare, come posso cioè esprimere ciò in cui credo profondamente, quello per cui vivo, di cui sono sempre più convinta?
Potrei iniziare da qui, dall’inizio da cui è partita Teresa.
Teresa, al principio, quando ha riformato il Carmelo, non aveva sicuramente l’idea di rifondare (o reinventare) un Ordine di queste proporzioni; desiderava soltanto formare una comunità che potesse vivere in maniera più contemplativa di quanto non facessero le religiose al Carmelo dell’Incarnazione, ad Ávila, dove da giovane era entrata come monaca. E non che loro, le sorelle, le monache dell’Incarnazione, non dessero a Dio quell’amore che Lui da loro voleva. Teresa, però, desiderava altro (e anche Dio da lei): aspirava ad una vita più raccolta, più separata dal mondo, ad uno stile che tutelasse meglio una vita incentrata interamente sulla preghiera contemplativa. Ma poco dopo, mentre già stava mettendo mano all’opera, venne a conoscenza della lacerazione che i luterani compivano all’interno della Chiesa. Questo dramma la mise in ginocchio, le fece capire che non erano tempi, quelli, per cercare un po’ di pace spirituale per se stessa, un po’ di beatitudine interiore, un angolino di paradiso in terra dove starsene tranquillamente in santa pace. C’era bisogno, urgenza, di “amici forti di Dio”, che gli facessero compagnia in questa rinnovata agonia, amici che fossero strumenti della sua salvezza nel mondo.
Il Carmelo si è così sviluppato attorno a questo bisogno della Chiesa. Teresa, parlandone, si slancia in un grido che è divenuto famosissimo: il mondo è in fiamme! Non è e non c’è più tempo di rinchiuderci nei nostri piccoli “io” per pensare solamente a noi stessi, per preoccuparci egoisticamente delle nostre piccole anime, dei nostri piccoli o grandi problemi (fossero anche quelli di assicurarci un posto in paradiso): c’è da accompagnare nuovamente Cristo in questo disegno di salvezza dell’uomo. Il mondo è in fiamme! – diceva lei nel Cinquecento. Noi forse oggi siamo immersi in una crisi epocale di proporzioni certamente più vaste e drammatiche di quelle sperimentate da Teresa. Siamo giunti ad una crisi che non ha precedenti nella storia della nostra civiltà. Come stesse avvenendo una consumazione epocale. La crisi che investe l’attuale società, l’attuale civiltà, pervade tutti i campi del vivere umano: la famiglia è in crisi, la politica è in crisi, la Chiesa stessa vive una fortissima crisi, forse anche più profonda di quella sperimentata negli altri ambiti sociali. Basta che leggiamo i giornali, e tutti i giorni ce ne rendiamo conto. È della settimana scorsa la notizia, dolorosissima, della nuova lacerazione in seno alla Chiesa ortodossa. Non importa che si tratti della Chiesa ortodossa e non di quella cattolica, sempre lacerazione della Chiesa è: la scissione della comunione tra il Patriarcato di Mosca e quello di Costantinopoli.
La nostra, è un’epoca che sta finendo, è un’epoca in cui le istituzioni, le espressioni della nostra cultura, non sono più sufficienti a dare motivazioni per vivere, a dare speranza. Sembrerebbe la fine, la disintegrazione di tutto, ma, da parte mia, sono convinta che siano piuttosto le doglie di un parto, che non sia semplicemente la fine di qualche cosa, la fine di un’epoca, la fine di una cultura, piuttosto un inizio, l’inizio di qualcosa di nuovo che preme per nascere e che lotta contro la feroce resistenza del “vecchio”, naturalmente ribelle a morire. L’implosione cui stiamo assistendo, anche nella Chiesa, mi sembra quindi il cedimento di costruzioni che forse di cristico hanno ben poco. E che, in quanto tali, devono morire. Ed è bene che muoiano. Ma da questa implosione dovrà pur emergere Cristo (quel Cristo che abbiamo seppellito nelle vecchie strutture egoiche), poiché l’opera della salvezza non è finita.
Noi crediamo che, nonostante quello che vediamo e che sembrerebbe attestare il contrario, Cristo attraversi la storia oggi come ieri. Egli è sempre con noi: e noi che cosa possiamo fare? Teresa, per una crisi che sembrava catastrofica a quei tempi, ma sicuramente di proporzioni inferiori a quella di oggi, gettandosi ai piedi del Signore, in lacrime e in pianti si chiedeva davanti a Lui che cosa – lei donna, così debole – avrebbe potuto fare, che cosa era in suo potere di fare per ostacolare il dilagare di tanto male. E racconta: “Mi risolsi a quell’unica cosa, quel poco che potevo compiere: fare tutto ciò che era in mio potere per osservare con la massima perfezione il Vangelo”.
La conversione interiore, l’accettazione di una trasformazione cristica interiore: ecco cosa poteva fare Teresa per aiutare la Chiesa del suo tempo a rinascere secondo Cristo. Teresa, la grande contemplativa del ‘500, diceva che un po’ di preghiera – e lei di preghiera se ne intendeva! – non sarebbe stata sufficiente per aiutare Dio a salvare il mondo. D’altronde, se fosse stato sufficiente un po’ di preghiera, ieri come oggi, il Verbo non si sarebbe incarnato. Né sarebbe stata necessaria una redenzione a prezzo di una divina Passione. Perché il cristianesimo è questione di Vita. È di vita nuova, pertanto, che c’è bisogno. Di trasformazioni interiori, profondissime. C’è bisogno di comprendere a fondo e vivere sul serio l’impegno preso nel Battesimo, di permettere allo Spirito di sviluppare in noi quel seme di divinità che ci ha gettato dentro, accettando la sfida, possibile in Cristo, di essere divinizzati e trasformare così il mondo attraverso la nostra conversione profonda, la nostra cristificazione. Permettere cioè a Cristo di operare la trasformazione del mondo attraverso la nostra umanità trasfigurata in Lui. Questo Teresa chiese alle sue sorelle, questo chiede oggi anche a noi, a noi carmelitane perché siamo sue figlie dirette.
Ma Teresa è Dottore della Chiesa, pertanto quello che dice non lo dice solamente a noi Carmelitane Scalze, perché il Dottore della Chiesa parla a tutti, e per tutti i tempi. A tutti Teresa chiede la conversione in Cristo: “ser tales que”, essere tali da – è l’espressione di Teresa – poter ottenere tutto da Dio. Dove per “tutto” si intende il ritorno dell’umanità a Dio.
Ma quale, tra le categorie utilizzate dalla Santa di Ávila, emerge nella sua spiritualità come categoria privilegiata di cristificazione? Ce n’è una – e l’ha citata anche Fra Charbel nel suo intervento di ieri pomeriggio – una categoria ‘princeps’, diciamo, che attraversa tutta l’opera di Teresa, e che mi ha sempre molto provocata, segnando la mia comprensione e, conseguentemente, il mio cammino di Carmelitana. Ci sono ritornata e continuamente vi ritorno più volte nelle mie riflessioni: è la categoria dell’amicizia. Pervade tutto, in Teresa, dal rapporto con Dio a quello con le sorelle e con il prossimo. Anzitutto, Teresa parla dell’orazione come un tratto d’amicizia con Dio, uno stare da sola a solo con Colui – attenzione! – non che amiamo, ma da cui sappiamo essere amati. Un tratto d’amicizia.
Ma anche a noi – ossia nella relazione tra noi creature – Teresa chiede la stessa cosa: chiede di amarci in Cristo. L’amicizia diventa dunque il tratto caratteristico della spiritualità teresiana. Da tempo sto riflettendo e mi sto interrogando su questo punto. Sul significato e sulla profondità dell’amicizia non solo in Teresa, ma, prima ancora e come suo fondamento, nella Sacra Scrittura, con particolare attenzione al Nuovo Testamento. Ne ho riflettuto un po’, come posso: non sono una biblista, sono solamente un’appassionata della Scrittura, mi ci immergo – come diceva un altro Ignazio, quello di Antiochia – come nella Carne di Cristo e, meditandola, ho notato una cosa. Che all’inizio del suo ministero pubblico, Gesù, interrogato su quale fosse il principale comandamento, risponde secondo il precetto veterotestamentario: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto te stesso e il prossimo tuo come te stesso”. Alla fine della sua vita, però (lo si nota soprattutto nel Vangelo di Giovanni), Egli ci lascia un’altra consegna come suo testamento, che non è più il precetto dell’amore a Dio. Come ribassasse sul prezzo, mentre, di fatto, imprime un’ascesa vertiginosa sulla scala dell’amore. E anche Teresa, ho notato, la grande mistica innamorata di Dio al punto da non sopportare che qualcun’altra creatura Lo potesse amare più di quanto lei stessa lo amasse, anche lei non ci chiede di amare Dio, ma, come Gesù, ci chiede l’amore per i nostri fratelli, per le nostre sorelle, secondo il “comandamento nuovo”, ultimo, che Egli ci ha dato prima di tornare al Padre: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”. Quindi anche Teresa ci consegna, come segno distintivo dell’appartenenza a Cristo, l’amicizia profonda tra noi “che ci amiamo in Cristo”. Per questo la categoria teresiana per eccellenza, secondo me, è quella dell’amicizia.
Ma di quale amicizia si tratta? Non si tratta certamente di un vago sentimento buonista e buontempone alla “volemose tutti bene”, ma di qualcosa di molto più serio ed impegnativo.
Mi spiego. In comunità, nella mia comunità carmelitana (come d’altronde in qualsiasi altra comunità religiosa) non ci siamo scelte. Probabilmente – benché sia anche divertente, e a volte lo è parecchio, stare nella mia comunità – nessuna di noi dieci (quante attualmente siamo in monastero) avrebbe scelto le altre nove sorelle per viverci gomito a gomito, 24 ore su 24. E vi assicuro che questa convivenza mette sovente alla prova la pazienza di tutte perché stimola e provoca continuamente, in ciascuna, la sua capacità di accoglienza del “diverso”, dell’altro. Senza sconti né attenuanti. Nel nostro quotidiano, creato intenzionalmente secondo la monotonia di un ritmo che si ripete sempre uguale a se stesso in tutti i giorni dell’anno, noi non abbiamo distrazioni che possano distoglierci, almeno in parte, dai “fastidi” quotidiani, offrendone facili vie di fuga. È vero che ormai anche dentro i monasteri è entrato internet (validissimo mezzo di distrazione di massa, se mal usato), ma non possiamo utilizzarlo indiscriminatamente: abbiamo momenti e spazi limitati per accedervi; non è che, se ci scocciamo della sorella, ci chiudiamo in cella (così si chiama la nostra stanza) e andiamo a distrarci con internet. Ancora, non abbiamo l’apostolato, attraverso il quale poter eventualmente essere stimate e quindi ricevere gratificazioni. Noi abbiamo la nostra sorella a fianco come sacramento della nostra reciproca santificazione. Una sfida enorme! La piccola Teresa, Teresa di Lisieux, aveva intuito bene: l’amicizia tra di noi, l’amicizia che Cristo (e Teresa d’Ávila con Lui) ci chiede di vivere, è quell’amicizia “nuova”, assolutamente rivoluzionaria, che Cristo è venuto a portarci e ad esigere e che è proprio l’amore al nemico. È questa la novità radicale, il tratto distintivo di noi cristiani, dal quale saremo riconosciuti: l’amore al nemico. Dove il nemico non è il tagliagole dell’ISIS che ci chiede la testimonianza del sangue, ma è semplicemente – e più quotidianamente ed umilmente – la sorella che mi sta accanto, che è diversa da me, che non ho scelto, ma che mi è donata e che potrebbe avere, come diceva la piccola Teresa, la caratteristica di possedere tutte quelle qualità che urtano la mia sensibilità e che, allora, mi “costringe” ad imparare gradualmente, faticosamente, ad amarla per come è, senza pretendere di cambiarla secondo i miei gusti. Un movimento nuovo che mi stimola, piuttosto, a cercare dentro di me quali siano gli ostacoli che mi impediscono di accoglierla profondamente. Si tratta non solo di chiudere gli occhi per vedere nella sorella Cristo – troppo facile! – ma di aprirli ben bene e amare la mia sorella così com’è, per quella che è. Questo è l’amore nuovo che Cristo ci ha chiesto. In questo consiste il precetto ultimo, che Cristo ci ha lasciato: “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”, questa è l’amicizia che crea comunità edificate su relazioni infrangibili, pur con tutte le fragilità che ci portiamo appresso e che permangono, con tutte le nostre debolezze. Comunità in cui ci possiamo accogliere ogni giorno, offrirci ogni giorno il perdono perché tutti i giorni avremo qualcosa da perdonare e di cui farci perdonare. Solo questa amicizia evangelica è capace di creare comunità che crescono nell’unico intento di edificarsi in Cristo. E lo fa attraverso una diuturna e costante ricerca di conversione, e che vede la sorella come uno specchio, nel quale riflettersi per potersi cambiare; non per cambiare la sorella, ma per cambiare se stessi. Edificare Cristo, edificarsi reciprocamente in Cristo, ossia edificare pezzetti di Regno, lavorando ogni giorno all’unico scopo di poter diventare non solo singolarmente, ma soprattutto comunitariamente, quel Volto di Cristo, per cui il Padre, guardandoci, potrebbe addirittura confondersi: “Chi sei tu? Sei Gesù o siete voi?” e confonderci col Figlio, perché il Suo ed i nostri volti sono sovrapposti in un unico Volto, pur nella nostra creaturale fragilità che comunque, ripeto, permane.
Siamo santi in cammino, e io credo che sia questa la sfida che ci offre Teresa. Ne ho ritrovata la sintesi – questo lo vorrei citare – in un versetto della prima lettera di S. Giovanni, nel quale l’apostolo ci dice: “Questo è il suo comandamento, che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato” (I Gv 3,23). Gesù, durante la sua predicazione, ci fa compiere un percorso di maturazione nella fede e, man mano che si avvicina al compimento della sua missione messianica, alza, per così dire, sempre di più il tiro al punto da non chiederci più – come massimo precetto – l’amore a Dio, ma la fede in Lui e l’amore al prossimo. Un amore al prossimo, però, infinitamente elevato di tono perché ci chiede di amarlo non più “come amiamo noi stessi”, ma come Lui stesso ha amato noi.
Non più l’amore a Dio, ma la fede in Lui… Perché? … Evidentemente, penso, perché abbiamo (sia noi che Dio) compreso che sia impossibile per l’uomo amare Dio. Amarlo davvero, dico. E, in effetti, Dio stesso, per renderci possibile questo amore, ci ha donato il suo stesso Spirito che in noi grida “Abba, Padre”. Senza questo Spirito, semplicemente, non potremmo amare Dio, ma – e questo ce lo spiega bene l’altro grande mistico carmelitano, S. Giovanni della Croce – nello Spirito possiamo amarlo dello stesso Amore con il quale Egli ci ama, restituendo perfettamente Dio a Dio.
Quello che invece possiamo fare è credere in Lui. Naturalmente, anche qui, non si tratta di una fede qualunque, generica, ma è una fede qualificata. Tutti i popoli di tutti i tempi hanno creduto nell’esistenza di un dio. Ma questa fede, per il nostro Dio, non è sufficiente. Non basta credere in Dio, alla sua esistenza. Questo non ci salva. La fede che vince il mondo, quella che Dio, il Padre, ci chiede nel Figlio Suo, è la fede nel Suo Amore per noi (I Gv 5,4). Sempre e comunque, perdutamente e tenacemente. Anche quando tutto, intorno e dentro di noi, combattesse (e quante volte accade…) per farcene dubitare. “Noi – dice l’apostolo – abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi”. (I Gv 4,16)
Anche Teresa ha fermamente creduto nell’Amore di Dio per lei, è testimone della misericordia di Dio traboccata nella sua esistenza. Teresa ha fondato tutta la sua vita sull’esperienza e nella certezza dell’Amore di Dio per lei. È significativo che, quando scrisse la sua autobiografia, non la intitolò “Il Libro della mia vita”, ma “Il Libro delle misericordie di Dio”. Aveva fatto di questo amore il cardine e il fine unico della sua vita, al punto che, dopo aver raccontato (sempre nell’autobiografia) il momento in cui scoprì la preghiera come tratto di amicizia con Colui dal quale sapeva di essere amata, e ripartendo da lì per proseguire il racconto della vita, scrisse che da quel momento non avrebbe più parlato della vita di Teresa, ma della Vita di Gesù in Teresa: questa relazione di amicizia, cominciata in lei da Cristo, costituiva ormai in lei la novità di vita, la Vita Nuova in Cristo. Non più biografia, ma Vita.
Anche noi crediamo in quest’amore di Dio, crediamo in quest’amore oggi, nella storia che stiamo vivendo, dove il buio sembrerebbe infittirsi sempre di più. Noi crediamo che Dio, oggi, stia attraversando questa nostra storia per condurla al Padre, che l’amore di Dio la stia plasmando dal di dentro come plasma le nostre singole storie e le nostre storie comunitarie: le storie delle nostre comunità, delle vostre famiglie. Queste famiglie, queste comunità, permeate dall’amore, queste comunità che accettano la sfida di amicizie altrimenti impossibili, ma possibili in Cristo.
Amicizie “altrimenti impossibili”, dico, perché naturalmente siamo inclini a salutare solo chi ci rivolge il saluto, a creare amicizie solamente con le persone affini: ma non è questo che ci chiede Cristo. Quando, però, si scommette su di Lui fidandosi solamente di Cristo; quando, fondandosi nella fede sulla Sua Parola, si creano queste comunità, che pur nella loro fragilità, tuttavia, giorno dopo giorno s’impegnano solamente a questo scopo, allora io credo che si creino davvero dei sacramenti di salvezza per l’umanità. Il detto latino antico diceva “Mors tua, vita mea”; noi dovremmo essere incarnazioni del detto contrario: la morte mia per la vita tua. E molte volte non è la morte fisica che ci viene chiesta, ma una morte interiore, la morte di chi cede i propri egoismi, cede i propri tornaconti, la morte di chi, nell’amore e nella misericordia, diventa grembo che accoglie.
Ecco, se c’è un tratto femminile nella santità in generale e nella spiritualità teresiana in particolare – ci si chiedeva quale fosse nell’intervento precedente al mio – è forse questo: la capacità di farsi accoglienza dell’altro. Noi donne siamo fatte per accogliere, siamo grembi, grembi che accolgono la vita. Forse è per questo che la riforma del Carmelo è nata proprio da una donna, una donna capace di accogliere la vita anche se non l’ha fatto fisicamente (ma ci sono molti modi di generare e di accogliere la vita), con quella correlata capacità di morire nel dono e del dono di sé. Perché si dice che la donna, quando genera un bambino, “dona la vita” (e chi è madre sa bene quanta rinuncia di sé comporti il generare un figlio), ossia la trasmette donando la propria e, in questo atto, in qualche modo muore, a volte rischia anche fisicamente la morte per dare alla luce la sua creatura. Questa capacità di dono è tipica della donna. La donna è fatta, è strutturata per accogliere e conservare, per accrescere la vita. Poi naturalmente anche l’uomo è chiamato a fare la sua parte, tipicamente maschile-paterna, instradando la vita nascente verso sentieri autonomi e personalmente creativi, perché i ruoli vitali, femminile e maschile, si compenetrano vicendevolmente in un reciproco dono, ciascuno secondo le proprie caratteristiche.
Ma per tornare alla realtà della comunità teresiana, essa è una comunità di donne che vivono personalmente e comunitariamente questo essere grembo che genera vita.
Noi, chiuse in clausura, non sapremo mai dove la nostra morte, il nostro morire di ogni giorno perché altri vivano, porterà salvezza. Non ci interessa: sono affari di Dio. La nostra vita è donata a lui per la salvezza del mondo: non fidandoci però di noi stesse, ma fidandoci solamente di Lui perché è Lui che genera la vita.
Questa, per l’esperienza che ho del Carmelo, è la mia testimonianza.
Roma, Chiesa del Gesù,
23 ottobre 2018